La Pietà – Giuseppe Ungaretti

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LA PIETÀ

Cosa può accadere ad un giovane di 19 anni, quando fuori dal contesto scolastico incontra Giuseppe Ungaretti, complice una delle più grandi trovate letterarie, gli “Oscar Mondadori” (circa 1967-1970), che hanno permesso ad un vasto pubblico l’accesso ai grandi della poesia della letteratura e del pensiero?

Cosa accade quando il giovane trova in questo grande poeta e grande uomo, il maestro di vita, l’amico con il quale confrontare il suo percorso, le stesse paure esistenziali che gli stringono l’anima in un abbraccio angoscioso?

Accadono i miracoli, partecipare al dolore di Ungaretti aiuta a il giovane a decifrare meglio il suo dolore. Il giovane mette assieme il suo percorso con quello del poeta, questo lo aiuta a decifrare meglio le mille emozioni della giovane vita e scopre che la speranza può vince sulle paure.
In questa poderoso e accorato inno a Dio, Ungaretti, pur nella paura della solitudine, lo trova e lo mostra all’anima. “Dio è nel cavo della mano” dirà il suo contemporaneo John Steinbeck, afflitto dallo stesso dolore.

 

 

 

 

 

 

 


1

Sono un uomo ferito.

E me ne vorrei andare
E finalmente giungere,
Pietà, dove si ascolta
L’uomo che è solo con sé.

Non ho che superbia e bontà.

E mi sento esiliato in mezzo agli uomini.
Ma per essi sto in pena.
Non sarei degno di tornare in me?

Ho popolato di nomi il silenzio.

Ho fatto a pezzi cuore e mente
Per cadere in servitù di parole?

Regno sopra fantasmi.
O foglie secche,
anima portata qua e là…

No, odio il vento e la sua voce
Di bestia immemorabile.

In questa poesia Ungaretti guarda dentro sé stesso, dopo 10 anni dalla fine della grande guerra, si scopre ferito e solo. Guarda nell’intimo del suo cuore, entra nella stanza più segreta e trova la lacerazione prodotta dalla lotta di due mostri dell’uomo: la superbia e la bontà. Percepisce appena che le sue paure non seguono lo stesso percorso dei suoi contemporanei, artisti o poeti che siano. Come poeta e come uomo si sente esiliato tra i suoi stessi simili. Resta chiaro il pensiero che nonostante questo comune dolore, si dissocia dai suoi contemporanei che li vede lontani, affaticati per altre strade diverse dalla sua.
Il suo male è un male antico:
Qual è lo scopo della vita?


Che rapporto ho con il creatore?
Per darsi coraggio ripercorre i suoi sforzi per capire qualcosa della vita che intanto scorre inesorabile, ma si trova con il cuore e le mani vuote. Trova solo parole, silenzi e fantasmi, ben altre erano le aspettative.
E’ un uomo inginocchiato. Fa appello ad una sua amica spirituale, la pietà, per ottenere conforto, ma anche un dialogo che generi comprensione.

Sente di essere divenuto a dispetto delle apparenze, come una foglia secca, priva di vita, portata dal vento a girovagare per strada, senza meta.
Lo stesso vento che agita la foglia, sferza la campagna, suona e canta armoniosi ululati, mai forieri di gioia, suoni cupi come l’inverno.

 

Dio, coloro che t’implorano
Non ti conoscono più che di nome?

M’hai discacciato dalla vita.

Mi discaccerai dalla morte?

Forse l’uomo è anche indegno di sperare.

Anche la fonte del rimorso è secca?

Il peccato che importa,
se alla purezza non conduce più.

La carne si ricorda appena
Che una volta fu forte.

È folle e usata, l’anima.

Dio guarda la nostra debolezza.

Vorremmo una certezza.

Di noi nemmeno più ridi?

E compiangici dunque, crudeltà.

Non ne posso più di stare murato
Nel desiderio senza amore.

Una traccia mostraci di giustizia.

La tua legge qual è?

Fulmina le mie povere emozioni,
liberami dall’inquietudine.

Sono stanco di urlare senza voce.

Ma in questo dolore le paure prendono un nome chiaro. Le domande della vita sono dolorose e per dare le risposte ha bisogno di interrogare l’essere supremo, riconosciuto, nell’intimo cosciente ed incosciente, il donatore della vita.
Scopre che pur possedendo nell’intimità del cuore, la bontà in quantità superiore alla parte alla superbia, riconosce che non percepisce l’amore per Dio, se non che di nome. Un corto circuito sicuramente, ma il circuito c’è.
Un nome che nel suo dolore dovrebbe consolarlo ma che è privo del potere guaritore.
Un Dio “sordo” che non scende su di lui, non lo aiuta a superare il dolore della vita.
Un Dio che non l’aiuta dal superare la paura della morte.

Pian piano da questa lacerazione emerge la bontà dell’uomo Ungaretti, che spera. Sente il “rimorso” per gli errori commessi, e tramite loro tenta di uscire da questo dramma. Speranza e pentimento si fermano in gola, un grumo incolato alla carne in grado di togliere il respiro.
Riaffiorano i giorni dalla giovinezza in cui il dolore era meglio governato, tempo in cui l’anima però non ha trovato le risposte desiderate. Affranto, nonostante le debolezze dell’anima, chiede aiuto a Dio di intervenire, di dargli una certezza. Un grido silenzioso che resta senza voce.
Questo grido lo conosciamo bene, è quello del Getsemani, quando Cristo mentre era stritolato dal dolore dell’espiazione lo fece tremare da ogni poro, ma a questo grido Dio non risponde, fa parte del processo della crescita che santifica l’uomo.
Verso lo stesso Dio Ungaretti teme di non avere nessun contatto, lo sconforto è così grande che la superbia risale e soffoca la bontà, teme addirittura che Dio “ride” delle sue paure, crudeli sentimenti di vuoto e di solitudine. Ma è proprio qui il grandioso messaggio della poesia “la Pietà”, pur nella straziante lacerazione, Ungaretti resta fermo, sa che solo Dio lo può consolare. Il dramma dell’uno diviene quindi il dramma di molti, Ungaretti indica la strada e sembra voler dire “anche quando ti senti solo, quando credi che Dio ti abbia abbandonato continua a sperare”. Esplode il grido di richiesta di soccorso alzato direttamente a Dio, da figlio imperfetto a Padre troppo lontano, una supplica accorata, “non lasciarmi prigioniero nel desiderio di conoscerti, tu che sei l’amore supremo, dammi una traccia di giustizia in modo che io possa curare le lacerazioni dell’anima.

2
Malinconiosa carne
dove una volta pullulò la gioia,
occhi socchiusi del risveglio stanco,
tu vedi, anima troppo matura,
quel che sarò, caduto nella terra?

È nei vivi la strada dei defunti,

siamo noi la fiumana d’ombre,

sono esse il grano che ci scoppia in sogno,

loro è la lontananza che ci resta,

e loro è l’ombra che dà peso ai nomi,

la speranza d’un mucchio d’ombra
e null’altro è la nostra sorte?

E tu non saresti che un sogno, Dio?

Almeno un sogno, temerari,
vogliamo ti somigli.

È parto della demenza più chiara.

Non trema in nuvole di rami
Come passeri di mattina
Al filo delle palpebre.

In noi sta e langue, piaga misteriosa.

Quale suprema supplica di figlio bisognoso, traspare nei versi, il ritratto di colui che nel più profondo ha fiducia: mostrati a me, mostrami le tue leggi, liberami dall’angoscia di credere in te e tuttavia non sapere come e dove trovarti.  Ho bisogno di te.
Al grido di supplica che nasce dal desiderio, gli fa eco la paura della realtà, della consapevolezza di sentirsi solo. Tutto si perde nello stesso infinito che ieri lo illuminava d’immenso, anzi il vuoto della sua condizione ora è così forte che in effetti riconosce il suo urlo sterile, spedito addirittura senza voce. Sembra che il dolore prodotto della mancanza della relazione con Dio lo imprigioni, esattamente come i personaggi di Michelangelo, che tentano di liberarsi dalla materia e dal marmo.

Dopo il grido, Ungaretti si ferma a riflettere sui giorni vissuti, ma subito lo sguardo viene catturato dal futuro. Si trova stanco per affrontarlo e il pensiero della morte gli porta delle domande che spera lo consolino. Scopre che il senso della vita, così come lo ha ricevuto è vuoto, si chiede come riempirlo con aspettative diverse. La vita non può essere ricondotta ad un semplice passaggio, e misurata solo in base all’ombra delle tombe. Anche Ugo Foscolo si era fatta la stessa domanda “All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne/ Confortate di pianto è forse il sonno/ Della morte men duro? Questo pensiero riaccende la paura di trovarsi senza Dio, la paura che Dio resti solo un sogno, agognato e desiderato, un sogno bello dal quale non svegliarsi mai.
Piaga misteriosa dell’uomo che cerca Dio.

3
La luce che ci punge
È un filo sempre più sottile.

Più non abbagli tu, se non uccidi?

Dammi questa gioia suprema.

La riflessione di sentirsi solo, nello stesso universo di cui diversi anni prima si sentiva una “docile fibra”, si fa amara, la luce di quell’armonia adesso invece che “illuminare” “punge” e il potere di quella gioia è sempre più sottile.
Poi l’urlo senza voce dal quale subito dopo si dissocerà, rappresenterà la parte più amara della poesia:
-Più non abbagli tu, se non uccidi?
– Dammi questa gioia suprema
Ecco qui emerge la solitudine e la bontà dell’uomo moderno che cerca Dio
L’accusa e la supplica sono mescolate assieme, ma a vincere sarà la supplica perché il finale è grandioso per umiltà e bontà e mostra ancora una volta la grandezza dell’uomo Ungaretti, l’uomo che pur privo di una relazione diretta con Dio, la cercava con onestà. La possedeva senza saperlo.

Il registro cambia e il poeta ritorce il pensiero sui guasti fatti dalle generazioni di uomini passati che hanno raccontato un cuore dove non c’era posto per il Dio che lui cercava.
Un cuore, quello degli uomini naturali, immenso come l’universo ma monotono e senza vita.
Una intelligenza, quella degli uomini carnali, febbrile, ma capace solo di annunciare continuamente limiti nell’amore, nello spazio e nel tempo

4
L’uomo, monotono universo,
crede allargarsi i beni
e dalle sue mani febbrili
non escono senza fine che limiti.

Attaccato sul vuoto
Al suo filo di ragno,
non teme e non seduce
se non il proprio grido.

Ripara il logorio alzando tombe,
e per pensarti, Eterno,
non ha che le bestemmie.

Definisce arroganza insostenibile, quella degli uomini che lo circondano. Sa bene che l’origine del suo male si trova nei profondi danni perpetrati contro l’immagine di Dio. Sa bene che il nome di Dio è stato usato con poderosi inganni per uccidere o mettere al rogo altri uomini. Sa bene che questo finto amore per Dio non ha fatto altro che diffondere turbamenti, paure e conflitti fra tutta l’umanità. Che molti cuori sono in pena. Sa bene di essere la parte debole della storia, quella che teme di aver perso l’amore di Dio per sempre. Il poeta vede il contrasto abissale tra il debolissimo filo di ragno tessuto dall’uomo, mostrato come un trofeo di forza e di potere, ma che in effetti seduce soltanto l’arrogante e i suoi complici.  Trova la forza di staccarsi dal mondo.

I suoi contemporanei diventano “ominicchi”, dediti all’apparenza dell’anima che fanno credere di amare Dio ma di fatto sono bestemmiatori. Canto amaro questo, non nella sostanza ma nell’atmosfera generale. A ben riflettere, traspaiono in ogni verso non le “parole” ma i “sentimenti” dell’anima.
Quando l’uomo è in grado di raccontare il suo dolore con questi sentimenti.
Quando vedi in te stesso la luce e le tenebre
Quando capisci che la forza della luce ha vinto la seduzione delle tenebre,
Quest’uomo è vicino alla verità più di quanto pensa.
In tutta la poesia Dio è sempre accanto al poeta, o meglio traspare chiaramente che il poeta è sempre acanto a Dio.

Canto amaro di Ungaretti, come amara é la quinta sinfonia di Gustav Malher che quasi contemporaneo, racconta con una orchestrazione poderosa la stessa lacerazione dell’anima. Ai fiati del primo movimento che con potente energia pongono molte moltissime domande e trascinano l’ascoltatore in un mondo pieno di contrasti che esplodono nei pieni dell’orchestra, fa seguito l’adagio, lento angosciato nel quale emerge, sommessa la stessa paura di Ungaretti: ho bisogno di trovare Dio.

Ernesto Nudo

 

 

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